clarindo bassani | testi critici
facciate
Il tema della superficie e il bisogno/paura del silenzio sono due
tratti distintivi della nostra epoca. La rivoluzione mediatica ci
riduce a una bidimensionalità temporale e spaziale, un
presente-presente e una dimensione pellicolare che non permettono
all’umano di trattenere quella tridimensionalità del tempo (passato
presente futuro) e quell’orientamento indispensabili alla nostra
identità che fonda ancora su un racconto e su una mappa. Gli artisti
sono i sensori primi delle mutazioni antropologiche e da qualche tempo
sono in atto molte sperimentazioni che usano proprio i nuovi strumenti
tecnologici per tematizzare le questioni di cui stiamo parlando: è più
raro trovare artisti che riescono a farlo usando pennelli e tele, e
Bassani è uno di questi rari esempi. Da tempo egli è andato
interrogando le superfici murarie per trovarci quei residui di tempo
passato, quei segni di esistenza che l’accelerazione elettronica non
trattiene più: l’umano si sta dissolvendo in una nube digitale.Non a
caso Bassani li predilige: i muri sono un emblema della nostra epoca,
simboli muti di stratificazione temporale (coi graffi, le
scorticature, le sovrapposizioni di colore che l’uomo ci ha impresso)
e insieme di confinamento alla superficie più fragile (il tempo
cancella quei segni, la superficie è dura e resiste a essere
penetrata, nasconde il tesoro di senso che graffiando con le unghie
vorremmo tanto svelare). Questo tema è stato contaminato da Bassani,
con felice intuizione, a quello del ritratto – forse era inevitabile
–. I volti cercano di stagliarsi sullo sfondo di muri, ma quel che
accade è che le superfici si compenetrano. L’intonaco contamina la
pelle, la pelle si dissolve nel muro, perché stanno dicendo la stessa
cosa: siamo una pellicola sempre più sottile, il nostro essere si
sbriciola e decade, il nostro segreto, in apparenza evidente, è sempre
più labile, inattingibile. Non è un caso se quel che domina su questi
volti sono gli occhi: la visione è stata il senso che ha prevalso
sugli altri quattro secoli fa e che ci ha portato a questo esito, lo
specchio dell’anima è muto – ed è un grande valore aggiunto la
capacità di Bassani di tenere insieme la pittura tenebrosa del ‘600 e
del ‘700 e la contemporaneità! –; così come muta è la bocca che ha
urlato, l’essere ci guarda per vedere se abbiamo udito, se resta una
eco in noi di quel che dice inascoltato.
Gianni Cascone
cave canem
Presentazione di Fulvio Cervini
Il ritratto di animali vanta una lunga e nobile tradizione, nella
civiltà figurativa occidentale. E non soltanto come sottogenere buono
per arredare i salottini delle vecchie zie. Basti citare i cavalli
dipinti da Giulio Romano in Palazzo Te a Mantova o i cani fotografati
da Elliott Erwitt in situazioni curiose, con o senza i loro padroni, e
da altezze insolite. Clarindo Bassani naturalmente lo sa.
Nell’intraprendere un filone di ricerca incentrato su ritratti di cani
amplificati dal formato grande e dal punto di vista generalmente
ravvicinato non può che giocare con una tradizione richiamata giusto
per essere contraddetta. Assai raramente si sono visti cani così
grandi, e tanto più sulle pareti di una galleria; e quasi mai cani
così classici e anticlassici al tempo stesso. Eliminando ogni
riferimento di contesto, Bassani rappresenta l’antitesi di Erwitt.
Parliamo di ritratti in senso molto stretto, perché il corpo non si
percepisce quasi mai nella sua totalità – e anzi sfuma come
riassorbito da un fondo sui toni del grigio e del bianco – e l’occhio
deve concentrarsi su un muso che si tende a rappresentare (e dunque a
percepire) come volto individualizzato. Isolandolo dal resto e
forzando il metro naturale, ogni essere vive di una fisionomia che
diventa personale, quasi in contraddizione con i titoli attribuiti ai
dipinti dall’autore, che riportano in genere la razza del cane.Eppure
non sappiamo niente di questi cani, nulla delle loro storie né dei
loro padroni. Nemmeno come si chiamano, forse perché i nomi ai cani li
danno gli umani (e dunque Bassani non voleva darli, né raccontare
storie). A definire il cane non devono essere il padrone o gli
attributi, ma la sua stessa bellezza, priva di interazioni con alcun
altro essere, tranne l’artista. Che la restituisce con segno veloce,
e bella materia liquida; ma la consuetudine con i soggetti ci conferma
che quel segno è molto meditato. Davanti a noi c’è quasi un’idea
archetipica di cane. Ma come per conoscere l’uomo bisogna conoscere la
molteplicità degli uomini attraverso gioie, sofferenze e deformazioni
dei loro volti – guardandoli e amandoli uno a uno – così non possiamo
accontentarci di associare il cane all’idea di cane, e neppure a ciò
che l’uomo si aspetta da lui. In verità, davanti a noi c’è un altro da
noi con cui siamo obbligati a entrare in contatto. Del resto Bassani
ha sospinto qualche volta la pittura a cercare una simbiosi tra il
miglior amico dell’uomo e il miglior (?) amico del cane, sempre sul
filo di una dissoluzione della forma accentuata da colature ed effetti
di quasi non finito. Ma una vena sentimentale e quasi malinconica
attraversa la simpatia che il pittore nutre per i suoi modelli, perché
essi sembrano quasi sul punto di svanire; e i loro occhi neri e
profondi ci guardano – o ci sfuggono – come varchi verso l’assoluto o
il nulla. Bassani prosegue con dalmati e alani un lavoro che lo vede
impegnato da anni a esplorare le potenzialità del volto umano,
protagonista assoluto di grandi tele in cui occhi non meno abissali
fendono maschere solcate dal tempo e dalla vita, e consumate dalla
stessa dialettica tra realismo fotografico e realismo pittorico,
sintetizzata in una negazione delle apparenze, che con accenti meno
tormentati e appena più rasserenati distingue la serie dei cani.Forse
questo accade perché gli uomini possono essere malvagi, gli animali
mai. I cani non conoscono il peccato e la colpa, la disperazione e la
rabbia, i tormenti e le ambiguità che gli uomini di Bassani hanno
scritti negli occhi e nelle rughe, nelle smorfie e nelle grida.
Possono al più conoscere tristezza e depressione, ma in ogni caso
rappresentano un paradigma affettivo sicuro. Certo anche i cani, come
gli umani, aderiscono all’atmosfera del fondo e si fanno a loro volta
muri, allargandosi a coprire i muri del quadro come quelli della
realtà. E dunque vanno guardati anche in rapporto a un terzo filone
coltivato fruttuosamente da Bassani, quello dedicato alla consunzione
di architetture e murature, che vengono dilavate dalla pioggia e
corrose dai sali, quando non travolte da onde e venti. In questo
flusso di coscienza cromatico, il cane – e magari un cane
insolitamente grande – può tuttavia rappresentare un argine contro la
perdita di forme, equilibri, riferimenti. Soprattutto quando spiazza
il nostro spazio, guardandoci delicato e forte da una parete di casa.
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